Senza advocacy

Mentre questo anno così disperato si avvia finalmente a crepare, c'è un sassolino nella scarpa di un assistente sociale. Proprio all'indomani del primo, sciagurato lockdown, l'Ordine Nazionale approvava il nuovo codice deontologico, le regole etiche che guidano la professione. 
Advocacy vuol dire patrocinio, sostegno e indica le azioni volte a promuovere... una buona causa, vale a dire orientare l'opinione comune e di conseguenza indirizzare le politiche pubbliche. Bene, fino al vecchio codice deontologico c'era un articolo, numerato col 37.
"L’assistente sociale ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che ne hanno la responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di deprivazione e gravi stati di disagio non sufficientemente tutelati, o di iniquità e ineguaglianza."
Bello potente, eh? Rivoluzionario, condivisibile, eroico. Anche troppo. E così è sparito. Guarda un po', proprio all'inizio del calvario che sta precipitando un sacco di persone nella povertà e che non ha ancora raggiunto il suo climax. 
Ho cercato di credere nella mia professione. E difenderla, spiegarla. Viverla. Ma facevo fatica e ora che è scomparso questo fondamento di anelito alla giustizia sociale, mi sento derubato. Non dalla tassa annuale, non da formatori appioppati a riempire ore, crediti, per un aggiornamento obbligatorio che avevo imparato ad apprezzare, nemmeno da colleghi che lavorando nel "pubblico" sembrano trattare noi del terzo settore come dei paria - e un po' lo siamo, purtroppo. Ma mi sento raggirato da chi, derubricando l'advocacy a lavoro di rete, (importante, certo ma...) ci ha detto "Non è roba nostra, lasciamo perdere". 
E, brutalmente, con un glissando sulla professione come colui che molli qualcuno ad un qualsiasi svincolo, mi sento talmente raggirato e pentito da rimpiangere i trasporti in furgone in giro per l'Europa, con la caffeina, la musica e il viso di una donna da rivedere al ritorno, che fosse una ragazza vera o il mio adorato, moribondo paese.

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